Ho già avuto occasione di trattare in precedenti aricoli il rapporto fra globalizzazione, culture politiche e migrazioni internazionali, con particolare riferimento ai tre principali Paesi d’immigrazione dell’Unione europea: la Francia, il Regno Unito e la Germania. Dopo aver sottolineato la profonda influenza esercitata dalle diverse culture politiche di quei Paesi sulle loro politiche migratorie, a lungo tanto differenti da configurare tre modelli distinti, se non addirittura opposti, rilevavo la tendenziale convergenza di queste ultime nello scorso decennio, per effetto di due fattori: il processo di globalizzazione, che ha notevolmente inciso sia sulla natura dei flussi sia sulle stesse culture politiche, e il processo d’integrazione europea, accelerato dal Trattato di Maastricht (1992), che ha istituito l’Unione europea, e dal Trattato di Amsterdam (1997), che ha fra l’altro previsto una sia pur imperfetta comunitarizzazione delle politiche migratorie dopo un periodo di transizione destinato a concludersi il 30 aprile 2004. Tali mutamenti, in effetti, hanno sollecitato la sostituzione delle vecchie politiche nazionali (definibili in termini di assimilazionismo etnocentrico in Francia, pluralismo ineguale nel Regno Unito e utilizzazione di “lavoratori ospiti” in condizione più o meno precaria in Germania) con una nuova politica d’integrazione sociale nel rispetto delle diversità culturali: la politica apertamente caldeggiata in questi ultimi anni dalle istituzioni comunitarie (si veda in particolare Commissione europea 2000). Notavo altresì che, paradossalmente, tale politica era stata anticipata dall’Italia, diventata un Paese d’immigrazione solo nel corso degli anni ’70, dopo di essere restata per quasi un secolo il primo Paese europeo di emigrazione. A tale orientamento, in effetti, già s’ispirava la sua prima legge sull’immigrazione del 1986, poi sostanzialmente ripresa da tutte le successive (la Martelli del 1990, la Turco - Napolitano del 1998 e la stessa Bossi - Fini del 2002, pur criticata da molti che le hanno a torto imputato un’impostazione del tutto opposta). Anche nel caso dell’Italia, sottolineavo senza peraltro entrare in argomento, era possibile individuare un preciso rapporto fra la politica migratoria e la cultura politica del Paese: un rapporto che risulta tanto più chiaro se, in contrasto con le riduttive definizioni correnti, per cultura politica s’intenda, come ho da tempo proposto, l’insieme delle idee fondamentali che in ciascun Paese orientano sul lungo periodo le relazioni esplicitamente o implicitamente istituite fra Stato, popolo e nazione, la prevalente concezione di quest’ultima e quella del popolo stesso, e quindi le relazioni fra etnicità, nazionalità e cittadinanza, i princìpi che regolano l’acquisizione dello status civitatis e i diritti e i doveri che ne conseguono (Melotti 2000a).Qui mi soffermerò espressamente su questo punto, con l’intento di mettere a fuoco un aspetto non secondario della nuova identità italiana, che peraltro rivela un cuore antico.